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Chapter 10
by Esseremicidiale02
Capitolo 10
Lo Spettacolo
La propaganda per Khaled non era solo un rituale quotidiano per rafforzare il suo dominio, ma anche un elemento strategico di Hezbollah. Da mesi ormai, Samira era costretta a esaltare Naim Qassen, uno dei leader più influenti del movimento, dipingendolo come il simbolo di un Libano forte e unito contro i “nemici esterni.”Davanti a lei, un produttore aggiustava luci e microfoni, cercando di bilanciare i toni del set. Accanto, Khaled osservava con le braccia incrociate e lo sguardo gelido di un uomo sicuro di sé. Non si trattava solo di rafforzare il messaggio ideologico, ma di umiliare Samira, riducendola a uno strumento utile ai suoi scopi. “Pronta,” disse secco il regista. Samira inspirò e cominciò: “Grazie alla visione di Naim Qassen e al sacrificio del nostro popolo, il Libano è più forte che mai...”
Mentre continuava, Samira percepì Khaled in piedi alle sue spalle, come un’ombra minacciosa. Dai pantaloni si poteva notare un leggero gonfiore ingrandirsi sul tessuto, nell’umiliare Samira stava avendo una erezione. Ogni parola pronunciata non era solo una menzogna, ma un insulto alla sua intelligenza e alla sua dignità. Conclusa la registrazione, Khaled si avvicinò con il solito sorriso acido. “Sei perfetta in ciò che fai, Samira. Mi chiedo sempre se ti accorgi di quanto sei brava a convincere tutti, persino te stessa.”
Samira si trattenne, sapendo che reagire sarebbe stata una condanna. Limitò il proprio dissenso a uno sguardo freddo, ma Khaled rise e scosse la testa. “Ricordati, ogni tua parola rafforza ciò che costruisco. Non scordare mai il tuo posto.”
In serata Samira venne convocata da Khaled nella propria camera. La stanza privata di Khaled era un microcosmo della sua stessa mente: sfarzosa, eccessiva, ma carica di un’opprimente oscurità. Tende di velluto color porpora pendevano fino al pavimento, soffocando quasi tutta la luce naturale. I mobili, in legno scolpito, erano troppo massicci per lo spazio ristretto, dominato da un letto centrale che sembrava progettato per un re antico, non certo per un uomo che predicava rigore morale. Khaled prese parola “vieni bellissima, voglio che impari e osservi.” Accanto al letto, in piedi, si trovavano le due ragazze che Khaled aveva fatto arrivare quella sera. Erano giovani, forse troppo per non attirare il mormorio di coloro che lavoravano nel suo staff, i quali erano stati cacciati dalla camera. Una di loro portava ancora segni delle percosse che qualche guardia o funzionario le aveva inferto durante il viaggio. La seconda, più sicura di sé, sembrava avere capito il copione, e cercava di adeguarsi con un distacco gelido, Samira vide nel suo sguardo qualcosa di diverso rispetto alle solite ragazze che il suo futuro marito portava in casa. Samira entrò con passi lenti, il cuore pesante. “Non capisci, vero?” disse Khaled, rivolgendosi direttamente a lei mentre si sedeva sul bordo del letto. “Questa è una lezione che tutti dovrebbero imparare: il potere è prendere ciò che ti spetta. Questi moralisti religiosi che credono di potermi controllare... sono loro che mi danno questo potere.” Fece un gesto teatrale con la mano verso le ragazze. “Sono le stesse persone che condannano pubblicamente ciò che sto per fare, ma sono loro che mi forniscono i mezzi per farlo. Tutti vendono la propria anima, Samira. Solo che io la compro sempre al prezzo più basso.”
Samira evitò di rispondere. Aveva imparato che qualsiasi obiezione sarebbe stata ribaltata per umiliarla. Si limitò a osservare la situazione e le persone in stanza. La prima ragazza sembrava avere un’origine iraniana, la sua forma del viso era allungata e aggraziata, con zigomi alti e definiti, la sua pelle color oliva. Gli occhi grandi e profondi di un marrone intenso, con ciglia folte. I capelli neri e leggermente ondulati, con ciocche ribelli sfuggenti. Le sue mani, con unghie corte e curate, mostravano lievi segni di graffi e indossava un abito lungo di cotone leggero nero. I suoi piedi erano scalzi e ricoperti di polvere; unghie corte, curate a metà, ma non abbastanza da nascondere l’aspetto trascurato. La seconda ragazza invece era proprio libanese, la forma del viso era rotonda e morbida, con guance leggermente rosee. La pelle in un tono caldo e olivastro, i suoi occhi di un verde tenue. I capelli castano scuro lisci e lucenti lunghi fino alla schiena, con una piccola ciocca a lato della testa. Il corpo era slanciato e proporzionato. Indossava un vestito lungo di seta rosso scuro, con una scollatura elegante. Ai piedi sandali dorati, arricchiti da pietre brillanti. Khaled era brillante come sempre, indossava un completo elegante ma opulento, come se fosse progettato per imporre la sua presenza ancor prima della sua persona. La camicia di seta bianca, appena slacciata sul collo, lasciava intravedere una catena d’oro che pendeva sul petto. La giacca, di un grigio antracite, era abbinata a pantaloni dello stesso tessuto. Ai piedi, scarpe di cuoio italiane.
Khaled prese la mano della seconda ragazza, stringendola con una presa ferma ma non troppo forte, come se volesse evitare di lasciare segni. La ragazza non oppose resistenza, ma il suo sguardo si abbassò, come se stesse cercando di nascondere la propria umiliazione. La costrinse a inginocchiarsi sul letto, con le ginocchia che affondavano nel materasso soffice, fece scorrere la mano sulla testa della ragazza inginocchiata, come se stesse accarezzando un animale domestico. La sua voce era bassa e suadente, ma con un tono di comando inconfondibile. "Ora, bellissima, voglio che tu mi mostri come si fa ad accogliere un uomo." La ragazza esitò per un istante, poi iniziò a slacciare i pantaloni. L’uomo chiuse gli occhi, assaporando la sensazione delle labbra della ragazza sul suo pene, lungo e sottile, con una venatura visibile sotto la pelle, pulsante di una vita propria. Poteva sentire la sua esitazione, la sua riluttanza, ma non gli importava. Samira guardava con disgusto, riusciva a malapena a credere a ciò che stava vedendo. Si sentiva impotente, intrappolata in una situazione di cui non avrebbe mai voluto far parte.
Con la mano libera, Khaled iniziò a palparle le tette mentre godeva sempre di più per il pompino. In seguito le fece cambiare posizione, la figa della ragazza sulla propria faccia, la leccava con movimenti lenti e deliberati. Fece un gesto anche all’altra ragazza, che si mise di fronte a lui. Smise un secondo di leccare ed ordinò “avanti, fammi una sega con i piedi.” La ragazza, con un'espressione impassibile, iniziò a muovere i piedi con un ritmico movimento. Khaled si lasciò andare, abbandonandosi alla sensazione. Un odio viscerale ribolliva dentro Samira, diretto non solo verso Khaled, ma verso l’intero sistema che gli permetteva di vivere in contraddizione con i valori che proclamava. Ogni gesto delle ragazze, forzato e svuotato di significato, le dava una fitta di dolore, ma anche un senso di vergogna impotente: in quel momento, era spettatrice e quindi, in un certo senso, complice.
Improvvisamente, la ragazza che si era unita da poco, cambiò espressione, il suo viso si trasformò in una smorfia di ira. Tolse i piedi dal pene di Khaled abbassandoli più in basso, velocemente contrasse le ginocchia e con la pianta di entrambi i piedi sferrò un calcio potentissimo nei testicoli del suo nemico. Il suono del calcio fu secco e forte, come un colpo di pistola, e Khaled emise un urlo di dolore e sorpresa, quasi mordendo la figa dell’altra ragazza, la quale colta di sorpresa si scansò al lato del letto. Con uno scatto fulmineo Khaled rotolò giù dal letto. La ragazza però era pronta a reagire e si lanciò di sotto atterrando proprio sui coglioni di Khaled. Le sue urla di dolore riempirono la stanza mentre i piedi della ragazza premevano sui suoi testicoli con una forza immensa. Il suo corpo si contorse e rotolò sul pavimento, i suoi testicoli però rimasero ben fissati sul pavimento sotto i piedi polverosi della ragazza.
Samira sentì un'ondata di soddisfazione e adrenalina mentre guardava la scena che si stava svolgendo davanti a lei. Il viso di Khaled, disperato e quasi lacrimante per ciò che stava subendo, era un'immagine che non avrebbe mai dimenticato. La ragazza, ancora con i piedi piantati sui testicoli di Khaled, iniziò a parlare trionfante e piena di odio "Hezbollah, la Guida Suprema Iraniana e gli uomini come te sono una maledizione per il nostro popolo! Non difendete né la fede né la libertà, ma solo il vostro potere. Io combatto per donne come Masha Amini, che il patriarcato ha soffocato con il proprio veleno!" Khaled però contro ogni pronostico, non si arrese. Con le poche forze rimaste riuscì a far scivolare la ragazza e a colpirla con una gomitata nello stomaco. Lei reagì graffiandolo, lui provò con un ceffone che la fece rigirare ma lei, con la forza di una leonessa, li morse la mano.
Samira non distoglieva lo sguardo. Ogni fibra del suo essere voleva tifare per la ragazza. Desiderava che quel suo tentativo di ribellione avesse successo, che quell'uomo così pieno di sé e crudele, che pretendeva di essere un pilastro di moralità pubblica mentre distruggeva le vite private, incontrasse finalmente la sua giusta punizione. Ma allora arrivò il primo pensiero scomodo: Se Khaled fosse morto, lì, in quella stanza, in quel momento, cosa sarebbe stato di lei?
Le dita le si irrigidirono attorno al velo, il cuore batteva forte. Avrebbe potuto mentire, forse incolpare qualcun altro, ma quanto sarebbe durata una bugia del genere? Khaled non era solo un uomo potente: era il volto di un'intera rete di controllo, propaganda, e ricatti. Se lui fosse caduto, quella rete si sarebbe ritorta su di lei come una trappola mortale. Al massimo, sarebbe diventata il giocattolo personale di un uomo ancora più spietato. Khaled era una figura centrale nel suo piano. Finché lui esisteva, finché aveva un volto pubblico e continuava a essere il simbolo ipocrita di quella corruzione, Samira sapeva di poter distruggere sia lui che Hezbollah lentamente, dall’interno. Se Khaled fosse morto, quella sua caduta sarebbe stata troppo silenziosa, troppo insignificante. Nessuno avrebbe assistito. Nessuno avrebbe imparato nulla. Il patriarcato si sarebbe ricostruito subito, con nuovi uomini pronti a riempire il vuoto, altre pedine nel gioco eterno del potere.
In mezzo al caos della lotta, la ragazza prese una statuetta di bronzo, pesante e acuminata, la sollevò come una selvaggia, la stava per schiantare sulla testa di Khaled, fin quando… "No!" gridò Samira, il suono più istintivo e animalesco che le fosse mai uscito dalla gola. Con uno scatto si lanciò in avanti, afferrando il polso della ragazza. “Fermati!” le urlò, cercando di immobilizzarla, mentre dentro di sé si malediceva per la sua scelta.
La ragazza si girò verso di lei “sei una sciocca! Sei una codarda! Guardalo, guarda cosa ci ha fatto! E tu lo difendi ancora?!” Khaled approfittò del momento per scattare in piedi. Non perse un secondo: con la statuetta ancora nelle mani della ragazza, la colpì violentemente al lato del cranio. Un suono sordo riempì la stanza, seguito da un silenzio opprimente. Il corpo della ragazza crollò sul tappeto, immobile, il suo sangue scuro che iniziava a impregnare la stoffa.
Samira restò lì, pietrificata, mentre Khaled la fissava con uno sguardo che oscillava tra confusione e diffidenza. Si pulì il sangue dagli angoli della bocca con il dorso della mano, poi sibilò: “Questo onestamente non me lo aspettavo. Hai fatto la cosa giusta Samira, forse posso iniziare a fidarmi di te.” Le guardie private entrarono di corsa nella stanza del loro padrone e lui urlò: “portate via il cadavere e anche l’altra ragazza. Accompagnate la mia futura moglie nella propria camera e pulite questo macello. Ora!”
Mentre le guardie portavano via la ragazza terrorizzata e si assicuravano che il loro capo stesse bene, Samira guardava il corpo senza vita della ragazza. Quel giorno avrebbe dovuto essere una vittoria, un colpo al cuore del sistema. E invece era diventato un ennesimo promemoria di quanto fosse complesso abbattere un regime dall’interno. Ma una cosa era certa: quella morte non sarebbe stata vana. Soprattutto adesso che aveva ottenuto maggiore fiducia da parte del suo nemico.
Il giorno seguente, un SUV nero con vetri oscurati si fermò davanti al cancello principale della Villa di Khaled. Il sole alto illuminava le mura candide della proprietà, e le guardie di sicurezza si muovevano in continuazione, le loro espressioni vigili pronte a intercettare anche il minimo segnale di anomalia. Era un luogo che emanava potere, ma anche paranoia. Khaled non si fidava di nessuno, nemmeno dei suoi uomini più fidati. Questo rendeva ogni incontro e ogni concessione un’occasione rara e accuratamente calcolata. Le guardie si avvicinarono subito al mezzo, una mano pronta sulla cintura, osservando con attenzione i passeggeri che scendevano dall’auto.
Ne uscì una donna elegante e sicura di sé, che ispirava un’immediata autorevolezza. Aveva i capelli biondi raccolti in un morbido chignon, con qualche ciocca strategicamente lasciata libera per incorniciare il viso dai tratti raffinati. Indossava un tailleur bianco perfettamente stirato, con un foulard nero intorno al collo che aggiungeva un tocco di sobrietà. Ai piedi aveva dei tacchi rossi 12. Era Freja, ma quel giorno il suo nome era Dalia Novak, giornalista internazionale del fantomatico Global Insight Weekly, una rivista di grande spessore inventata ad arte anni prima per occasioni come questa. “Documenti,” disse una guardia, allungando la mano con un tono secco e formale. Freja rispose con un sorriso affabile, tendendo un fascicolo con credenziali falsificate con precisione maniacale. “Sono stata invitata per un’intervista esclusiva con il signor Al-Rashid,” disse in un arabo fluido.
Gli uomini che l’accompagnavano, molti di loro europei, interpretavano alla perfezione i rispettivi ruoli: un cameraman, un tecnico del suono, e persino un assistente silenzioso che portava una valigetta piena di attrezzature. Tra i membri della sicurezza c’era però un volto familiare: Anahit, la fedele compagna di Freja, era lì con la divisa ufficiale, le spalle rigide e lo sguardo penetrante. Anahit teneva il suo coltello di guerra alla cintura, ma più di tutto, la sua abilità stava nel mantenere una calma glaciale. Tutto era stato organizzato con precisione impeccabile. Khaled stesso era stato convinto ad accettare l’intervista grazie a una lettera ricevuta settimane prima, in cui gli si prometteva di dar voce alla sua “verità”. Una mossa brillante: Khaled non poteva resistere all’idea di un’occasione per plasmare l’opinione pubblica internazionale. La guardia annuì. “Potete entrare.”
Freja si mosse con grazia attraverso il vasto salone decorato con tappeti persiani, opere d’arte lussuose, e lampadari scintillanti. Lui li aspettava su un divano in pelle scura, un caffè appena preparato su un tavolino accanto a lui. Era impeccabile come sempre: indossava un abito blu notte, senza una piega, la barba curata, aveva del trucco per coprire i segni dell’aggressione subita il giorno precedente. Quando Freja lo raggiunse, gli si rivolse con un sorriso rispettoso, ma mantenendo un’aria di autorevolezza. “Signor Al-Rashid,” disse con un leggero inchino del capo. “La ringrazio per aver accettato questa opportunità di condividere la sua prospettiva con il mondo.”Khaled la scrutò a lungo, senza rispondere subito. Stava valutando tutto di lei: il modo in cui parlava, come si muoveva, persino come sorrideva. L’apparenza di Freja e la promessa di un guadagno propagandistico superarono le sue riserve.
“È raro trovare una giornalista così… tenace,” disse con una leggera piega sulle labbra, un complimento velato che sapeva di controllo. “La tenacia è necessaria in questo lavoro, soprattutto per chi desidera dare voce a realtà tanto complesse,” rispose Freja, il suo tono privo di adulazione e calibrato al millimetro. Si mosse per sedersi, disponendo le attrezzature della “troupe”. Dietro di lei, Anahit si posizionava strategicamente tra le guardie. Tutto sembrava perfettamente legittimo: una telecamera, microfoni direzionali, e un tappeto tecnico di domande preparate per spingere Khaled a esporre la sua narrativa. Freja interpretava magistralmente la parte, senza tradire per un istante il suo vero obiettivo.
Durante una pausa tecnica, Samira entrò nel salone per portare un vassoio di tè, era stata avvisata solo la mattina stessa dell’intervista. Quando i suoi occhi incrociarono quelli di Freja, non accadde nulla di evidente. La giornalista distolse subito lo sguardo, troppo attenta a mantenere la sua copertura. La chiave dell’operazione era però Anahit. Mentre la troupe preparava le attrezzature e Khaled era distratto da una telefonata, trovò il momento giusto. Si avvicinò a Samira con fare apparentemente casuale, le mani dietro la schiena. “Può aiutarmi a portare questo?” le chiese a bassa voce, indicando un pacco che sembrava contenere attrezzature. Samira, colta di sorpresa ma consapevole che era meglio obbedire senza creare allarme, annuì. Seguì Anahit verso una stanza adiacente al salone. La ragazza armena si voltò di scatto: “Ascolta bene,” sussurrò freddamente “non sono qui per te, e non mi importa di quello che sei abituata a fare. Ma presto ti dirò dove andare, e per il tuo bene, faresti meglio a obbedire.” Samira la guardò, cercando di mascherare la confusione e la paura. Anahit era alta, con un’aria imponente, i capelli nocciola tirati indietro e lo sguardo duro di chi non aveva tempo per i giochi.
“Chi siete?” chiese Samira a bassa voce, cercando di mantenere la calma. Anahit fece un passo indietro, lasciandole cadere nella mano un biglietto piegato. “Non farlo vedere a nessuno. Segui le istruzioni. E non pensare di fare di testa tua.” Poi uscì dalla stanza senza aggiungere altro, lasciando Samira con un peso improvviso sul cuore.
Quando tornò nel salone, Samira cercò di comportarsi come se niente fosse successo. Sentì lo sguardo di Khaled puntato su di lei mentre serviva il tè, un promemoria costante della fragilità della sua posizione. Eppure, dentro di sé, qualcosa si mosse. Aveva intuito che quella troupe non era lì solo per intervistare Khaled, ma ancora non comprendeva appieno cosa significasse per lei. Quando la troupe lasciò la villa, Samira aprì il biglietto. Conteneva solo quattro parole: “Prossima Settimana. Mezzanotte. Giardino.”
Samira sapeva che stava per iniziare qualcosa di molto più grande di lei.
Capitolo 11
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