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Chapter 7 by Esseremicidiale02 Esseremicidiale02

Capitolo 7

Alleati tra ombre

Anahit Karapetyan era nata e cresciuta in Armenia. A soli sette anni, aveva perso il padre durante un attentato al confine con l’Azerbaijan. L'uomo era uno di quegli idealisti che credevano nella possibilità di un’Armenia forte, unita, ma le sue idee lo avevano condotto a un destino crudele, ma non aveva mai smessa di accompagnarla nei sogni. Aveva che il coraggio non era un lusso, ma una necessità, dopo anni di privazioni a Yerevan, si era trasferita al Rojava, il cuore della resistenza curda in Siria, dove aveva combattuto fianco a fianco con donne che vedevano la loro causa come la nuova rivoluzione mondiale. Aveva imparato due lezioni: la capacità di uccidere per sopravvivere e, soprattutto, il valore della solidarietà femminile.

La guerra in Siria era finita per lei quando, dopo uno scontro feroce con una milizia pro-turca, aveva perso una delle sue compagne più care. Quella perdita l'aveva spezzata. Aveva abbandonato il Rojava per vagare tra l’Iraq, la Giordania, e infine il Libano, mantenendosi con missioni. Era stata reclutata da un gruppo di donne appartenenti ai Servizi dell’Unione Europea, delle quali una donna danese di nome Freja Nielsen ne era al comando. Era stata proprio lei, cinque anni prima, a scovarla in un accampamento al confine tra Siria e Iraq. Anahit era alla deriva, sopravvissuta per caso a un attacco mortale di droni. Freja era arrivata come un'ombra tra le fiamme, elegante persino in mezzo al caos. Una sigaretta accesa tra le labbra e quel modo di guardare che perforava le persone come una lama invisibile. “Tu, armeno? Scommetto che hai più rabbia di chiunque altro qui,” aveva detto Freja quella sera. Anahit si era irrigidita, ma qualcosa nella freddezza pacata di Freja le aveva impedito di andarsene. “Io rappresento un progetto, qualcosa che va oltre. Siria, Israele, Libano... Sono solo capitoli. Vogliamo portare una pace vera e duratura in questa regione. E quando sarà tutto sistemato, ci occuperemo anche dell’Armenia. Ma ho bisogno di gente come te.” Freja era lì per reclutare e ci era appena riuscita. La promessa di giustizia per il suo popolo era stata un’esca troppo forte per resistere. Da allora, Anahit era diventata un pezzo di quel piano: missioni clandestine, infiltrazioni, assalti per destabilizzare alleanze tossiche. Per alcuni, Freja era un mito; per altri, una leggenda sinistra.


Anahit si trovava in un quartiere malfamato di Beruit e si accorse subito di loro. É un’anomalia ciò che ha notato: due uomini in jeans e camicie nere che si muovono a passo lento, ma coordinato, occhi bassi come predatori furtivi. Turchi, ne era certa. I servizi segreti di Ankara, probabilmente ancora irritati dalle azioni che aveva condotto in Siria anni prima. Erano venuti a prenderla ma lei non aveva intenzione di aspettare. Svoltò rapidamente in un vicolo stretto, poi altri due, guidandoli in una sorta di labirinto urbani. Il primo uomo comparve nell'angolo del suo campo visivo e Anahit agì come un fulmine. Gli diede un potente calcio all'inguine, facendolo piegare in due dal dolore. Lui crollò a terra, tenendosi il pacco con entrambe le mani, contorcendosi per l'agonia. Anahit approfittò della momentanea distrazione per correre lungo il vicolo, con gli stivali che rimbombavano sul marciapiede. Il secondo uomo, colto di sorpresa dal crollo improvviso del suo compagno, esitò per un momento prima di dargli la caccia. Ma l’armena fu troppo veloce per lui. Sollevò la gamba destra e la fece ruotare in un cerchio perfetto, come se stesse eseguendo una sorta di balletto mortale. Gli occhi lampeggiavano di una luca divertita.

Il calcio della ragazza colpì il secondo uomo con la stessa precisione del primo, centrando i testicoli con un impatto secco e violento. L'uomo emise un grido soffocato, come se l'aria gli fosse stata strappata dai polmoni, e crollò a terra con le gambe che si piegavano in modo innaturale. Il primo uomo si era ormai rialzato e stava tornando a dare la caccia all’armena che correva lungo il vicolo, gli stivali che rimbombavano sul marciapiede come un tamburo di guerra. Il turco la perse di vista ma Anahit spuntò da un angolo dicendo “sorpresa”. I suoi occhi nocciola che lampeggiavano di una luce fredda e calcolatrice. Con un movimento rapido e preciso, infilò il coltello nella parte superiore dei pantaloni dell'uomo, proprio all'altezza dei testicoli. L’uomo spalancò gli occhi, contorcendosi dal dolore. Lei si chinò, appoggiandogli uno stivale sul petto, inchiodandolo a terra. Anahit sorrise, poi tirò fuori la lingua, muovendola in un gesto osceno. Roteò gli occhi e tirò fuori di nuovo la lingua, stava facendo un’imitazione beffarda per prenderlo in giro. In seguito tornò con un espressione seria dicendo "Peccato che ti debba uccidere, scommetto che saresti stato un'ottima latrina per la mia merda". Le parole uscirono dalle sue labbra come un veleno, ma l’uomo ormai era pronto a morire, era stato addestrato anche per questo. Infatti nella sia faccia alla fine oltre la paura, Anahit poté intravedere il disprezzo che aveva nei confronti di lei e del suo popolo. Anahit con un movimento rapido e calcolato, conficcò il coltello nel petto dell'uomo, lui ansimò e immediatamente rimase immobile.

Il secondo uomo si era rialzato e stava correndo verso Anahit, appena lei lo vide pensò “giusto, c’é anche quest’altro, mi serve vivo”. Rimase fredda fino al momento del suo arrivo e poi, con un movimento rapido e preciso, gli sferrò un pugno diretto nelle noci. Il pugno colpì con precisione, facendo emettere all'uomo un grido soffocato di dolore. Anahit vide i suoi occhi spalancarsi e la sua faccia diventare rossa per il dolore. L'uomo si piegò in due, tenendosi i testicoli con entrambe le mani, e Anahit ne approfittò per afferrarlo per il collo e sbatterlo contro il muro. Poi, con un ghigno sadico, iniziò a sferrare una serie di ginocchiate precise e violente nei suoi coglioni. Il primo colpo lo fece piegare in due, il secondo lo fece urlare di dolore, il terzo lo fece cadere a terra, contorcendosi come un insetto. Anahit non si fermò, continuò a sferrare ginocchiate, una dopo l'altra, ognuna più violenta della precedente. Infine, quando lui perse conoscenza, lo catturò.


Anahit, ora nella sua stanza, osservava l’uomo legato alla sedia con un misto di disprezzo e concentrazione, facendo girare il coltello tra le mani con una precisione che testimoniava anni di addestramento e battaglie. Sul tavolo una serie di oggetti perfetti per le **** e per far parlare il prigioniero. La sua mente, però, si agitava per pensieri che andavano ben oltre il presente: sapeva che quell’uomo era solo l’ultimo di una lunga serie di inseguitori. I Turchi non si sarebbero fermati finché non avessero visto la sua testa rotolare, e lei li odiava con tutto il suo essere.

Anahit si avvicinò all'uomo legato alla sedia, il suo sguardo gelido e calcolatore. Le sue dita lunghe e affusolate si chiusero a pugno, poi si aprirono, rivelando le unghie lunghe e curate. Con un movimento lento e deliberato, Anahit sollevò la mano e afferrò le palle dell'uomo, stringendole tra le dita. L'uomo emise un gemito soffocato, mentre Anahit iniziò a muovere le unghie, graffiando la pelle delicata, inoltre sputò nella sua bocca, il liquido era denso e biancastro, con fili di saliva che si staccavano dalle labbra di Anahit e si attaccavano alle labbra dell'uomo, come una ragnatela umida e appiccicosa. Dopo aver lasciato la presa decise di appoggiare pesantemente gli stivali sui suoi testicoli, schiacciandoli con la punta in metallo. L’uomo urlava dal dolore, ma era solo l’inizio. Anahit si abbassò con la bocca vicina ai suoi testicoli e disse “oggi voglio proprio assaggiare palle di turco”. Con un ghigno sadico, Anahit iniziò a mordere le palle dell'uomo, i suoi denti affondarono con precisione nella pelle, facendo scaturire un fiotto di sangue. Lei emise un verso gutturale, un misto di grido e ringhio, che sembrò provenire dalle profondità della sua anima. Lei emise un verso gutturale, un misto di grido e ringhio, che sembrò provenire dalle profondità della sua anima. I canini affondavano nella parte superiore, mentre i molari laterali stringevano la base, creando una pressione costante e agonizzante, i denti anteriori, sembravano danzare sulla superficie, come se stessero esplorando ogni centimetro di genitali. Quando la ragazza sentì sufficiente sapore metallico e salato, si alzò e pose la prima domanda “come mai sei qua? Chi ti ha dato l’ordine?” L’uomo, anche se disperato, non rispose e allora Anahit si girò dandoli le spalle e cadde pesantemente sui suoi testicoli, facendo un rumore sordo e umido, come se il suo sedere fosse una massa di carne viva che si attaccava ai suoi genitali martoriati, rivelando la curva delle sue cosce, mentre lei iniziava a sistemarsi i capelli, passando le dita tra le ciocche marroni e ondulate, come se stesse cercando di calmare una bestia feroce. L’uomo ancora non parlava e lei con una certa sensualità inizio a saltellare con il culo sui testicoli già ben martoriati.

Lei iniziò a chiedere sfinita “ancora non parli, mh cosa posso fare?” con un tono di voce che era un misto di curiosità e sadismo. Si avvicinò al tavolo per cercare qualcosa di utile, le sue dita lunghe e affusolate scivolarono sulla superficie, toccando gli oggetti con una delicatezza che contrastava con la brutalità delle sue azioni precedenti. Dopo un po’ di indecisione scelse un oggetto lungo e sottile, con una punta affilata e una superficie liscia, che sembrava fatto apposta per penetrare nella carne più sensibile. Lo sollevò con delicatezza, come se stesse maneggiando un oggetto fragile, e lo avvicinò ai testicoli martoriati dell'uomo. Incise leggermente sul testicolo destro una A, per rappresentare il nome, mentre sul testicolo sinistro incise una K, per rappresentare il cognome. L’uomo iniziò a dare qualche informazione ma non era niente di rilevante, se non che i turchi la stavano cercando per essere alleata degli armeni e dei curdi, i nemici numeri 1 della Turchia. Tutte cose delle quali era già al corrente.

La porta si aprì senza un rumore, e Freja entrò lentamente, spezzando il silenzio nella stanza. La sigaretta che teneva tra le dita era circa a metà. Posò lo sguardo sul prigioniero, poi su Anahit, con un’espressione che tradiva una vaga sfumatura di divertimento chiese “Ti sei divertita?”

“Non abbastanza,” rispose Anahit. Freja si avvicinò all’uomo legato, lei rifletteva un aspetto impeccabile: lunghi capelli lisci e biondi ordinatamente divisi dalla riga centrale, la pelle pallida punteggiata di lentiggini leggere sul naso, e quei terribili occhi azzurro ghiaccio che non lasciavano scampo. “Posso torturare un po’ io quest’uomo per capire cosa sa?” Anahit rispose “é tutto tuo”.

Freja si avvicinò all'uomo legato, i suoi tacchi alti e sottili, che sembravano essere fatti di un materiale lucido e nero, come l'ebano, producevano un suono secco e deciso sul pavimento. I tacchi erano alti almeno 10 centimetri e avevano una forma affusolata, che sembrava essere stata disegnata per penetrare nella carne più sensibile. Gli occhi dell’uomo, già pieni di terrore, si dilatarono ulteriormente mentre fissavano la donna danese, e il suo respiro divenne più affannoso. La Danese indossava un abito elegante e professionale, tipico di una donna nordica in carriera. La gonna era lunga fino al ginocchio, di un colore grigio scuro che sembrava quasi nero, e si apriva leggermente sul lato destro, rivelando una calza di seta nera. La camicetta era di un bianco immacolato, con il colletto alto e le maniche lunghe, che accentuavano la sua figura slanciata. Una cintura sottile in pelle nera cingeva la sua vita, sottolineando la sua snellezza.

I suoi occhi azzurro ghiaccio sembravano penetrare nella sua anima. Il suo sguardo era freddo e distaccato, come se stesse esaminando un oggetto inanimato. La sua mano destra si mosse lentamente, come se stesse studiando ogni movimento, e poi, con una velocità fulminea, colpì l'uomo con un calcio preciso nei testicoli nudi. Lui però non parlò e la donna decise di provare un ulteriore mossa. Prese la sigaretta ormai quasi finita e la portò lentamente verso i testicoli martoriati dell'uomo. La cenere della sigaretta cadeva a terra, formando un piccolo mucchio grigio, mentre la donna la teneva sospesa a pochi centimetri dalla pelle già colpita. L'uomo chiuse gli occhi, aspettandosi il peggio. La sigaretta venne spenta sui testicoli con forza, la brace incandescente si schiacciò sulla pelle già ammaccata, producendo un odore acre di carne bruciata. L'uomo si contorse, scosso da convulsioni incontrollabili, le sue palle si accartocciarono, come se stessero cercando di allontanarsi dal dolore. Freja prese altre due sigarette dal pacchetto e riferendosi ad Anahit disse “vieni qua, te ne offro una”. La ragazza Armena eccitata dall’offerta della Danese prese una sigaretta e se la fece accendere.

La fiamma danzava sulla punta del tabacco, illuminando i loro volti. A quel punto Anahit, dopo due tiri, avvicinò la propria sigaretta verso i testicoli del prigioniero e la tenne sospesa a pochi millimetri dalla pelle arrossata. L'uomo, già esausto dal dolore, sentì un nuovo brivido di paura corrergli lungo la schiena. Freja, con un sorriso beffardo, aveva finito di accendere la sua nuova sigaretta. Con un movimento rapido, Anahit toccò leggermente la pelle del prigioniero con la sigaretta accesa, facendolo soffrire. La giovane premeva sempre più forte sulla palla destra, la sigaretta accesa sembrava una piccola torcia che bruciava la pelle già martoriata, la quale era diventata una massa di carne bruciata e sanguinante, si sentiva odore di toast appena pronto. Freja invece continuò a giocare con il sinistro. Una volta finite le sigarette, i testicoli dell’uomo sembravano un agglomerato di pomodori di diverse marche, colori e dimensioni. Freja prese dei guanti neri, non voleva di certo sporcarsi le mani, ed iniziò a colpire, strizzare, pizzicare, stringere e colpire quello che un tempo erano i coglioni del prigioniero, il quale non riuscendo più a resistere iniziò a parlare a valanga.

Una volta finito, Freja disse “tutte cose che sapevamo già, niente riguardo al nostro obiettivo” “Parli di Khaled?” domandò Anahit.

Freja annuì lentamente, incrociando le braccia sul petto, facendo risaltare la sua altezza di 1,82 metri. “Sappiamo che sta operando in una rete che si estende tra l’Iran, l’Iraq e il Libano. Ma non conosciamo ancora i dettagli. Se vogliamo smantellarlo, dobbiamo iniziare a infiltrare il suo mondo. Ho ottenuto l’accesso a una troupe di uomini: faremo finta di essere giornalisti europei, interessati a raccontare la sua versione.”

“E cosa mi chiederai di fare questa volta? Farti da guardia del corpo o portare io il microfono?” Freja rise leggermente, un suono rarefatto e breve. “No, sarà più divertente. Io sarò la giornalista, tu sarai parte della sicurezza. Khaled si aspetta sempre uomini intorno a sé. Non deve sapere che noi due siamo la sua fine. Una volta arrivate lì, capiremo se ci sono persone a cui appoggiarci per attuare il nostro piano di cattura”.

Anahit si alzò, distendendo lentamente il suo corpo snello e muscoloso su un divanetto, si tolse gli stivali in cuoio bassi con punta rinforzata in metallo, resi unici da piccole incisioni che aveva praticato da sola nel cuoio. Erano segni antichi, tratti della cultura armena, simboli di protezione e forza. I suoi piedi nudi, liberati dall'angusta prigione delle calzature, riflettevano tutta la durezza delle sue battaglie. Le dita lunghe e affusolate, con unghie curate ma prive di smalto sembravano delicate solo a prima vista, ma erano forti, segnate da piccole callosità tipiche di chi passa ore a camminare o correre su terreni accidentati. La pianta del piede era solida, con la pelle ispessita nella zona dei talloni e sulla parte anteriore, segni chiari di anni passati in combattimenti e spostamenti senza tregua. Le vene affioravano lievemente lungo l'arco plantare, che nonostante le durezze manteneva una grazia naturale, bilanciata dal tono muscoloso evidente anche nei piedi. Un sottile strato di polvere misto a sudore copriva la superficie. L’odore era intenso e sgradevole, una combinazione di cuoio umido, sforzo fisico accumulato e l’assenza di tempo per concedersi cure meticolose. Era l’odore della fatica incessante, quello di chi combatte fino allo sfinimento, senza preoccuparsi delle piccole vanità. Alcuni piccoli graffi lungo i bordi delle dita e sulla parte superiore rivelavano il contatto con pietre e superfici ruvide durante l’ultima colluttazione. Un leggero rossore si diffondeva su alcune zone per via della pressione prolungata degli stivali, e qua e là si intravedevano macchie di sporco che contrastavano con il tono più chiaro della pelle sotto di esse. Quegli stessi piedi, venivano ora messi in faccia al poveri prigioniero, che dopo aver già subito una serie di **** era costretto anche a questo. Anahit però si spinse oltre e li mise i piedi proprio dentro la bocca, ovviamente il prigioniero li dovette leccare da cima a fondo, sentendo ogni centimetro della pelle contro la sua lingua. Si contorceva e tossiva, mentre il sudore e la polvere gli lasciavano una sensazione appiccicosa dentro la bocca. I suoi occhi tradivano un misto di disgusto e umiliazione, mentre soffocava un grido, costretto a sopportare quell’insulto senza possibilità di reagire.

La ragazza aveva una bellezza magnetica, selvaggia e scolpita dal fuoco della sopravvivenza. I suoi capelli castano scuro, raccolti in una treccia stretta, cadevano pesanti lungo la schiena, incorniciando il viso dai lineamenti cesellati. Occhi color nocciola, grandi e un tempo dolci, brillavano come scintille intrappolate in un'opale. La pelle bianca con sottotono rosa ed olivastro, segnata appena da cicatrici leggere, raccontava una storia di guerre combattute e vinte. Il fisico di Anahit era una dichiarazione di forza: spalle ampie, braccia toniche e scolpite con precisione, frutto di anni di addestramento nel caos del Rojava. Anche i suoi polpacci sembravano cesellati, le vene affioranti testimoniavano di lunghi allenamenti sotto il sole impietoso. Indossava un paio di pantaloni militari aderenti.

Anahit guardò fuori dalla finestra “Dimmelo, Freja. Perché tutto questo mi sembra ogni giorno più distante dalla giustizia che cercavo?” Freja la guardò, inclinando la testa, lasciando la sigaretta in bilico tra le dita. “Non è distante, è solo lento. Lo sai meglio di chiunque altro. Questa è una guerra di anni, forse decenni. Ma sei qui per la tua gente. Ogni tassello che sistemiamo qui, ogni legame tossico che spezziamo, avvicina quel giorno in cui avremo tempo, risorse e spazio per guardare anche al tuo Paese.” La giovane ragazza rimase in silenzio. Freja capì che c’era bisogno di più.

“Guarda la situazione com’è ora: Hamas, Israele, Hezbollah, Iran, gli Houti, i Turchi, gli Americani… Si stanno spartendo questa regione come un bottino di guerra. Se lasciamo che vincano loro, il tuo sogno per l’Armenia sarà sepolto sotto tonnellate di dittature e fanatici. Non faremo mai passi avanti. L’Europa, per quanto imperfetta, sa qual è la posta in gioco. Vuole una pace vera. Ma per costruirla dobbiamo distruggere le basi di ciò che oggi tiene insieme queste fazioni.”

“Quindi anche il mio sacrificio non vale nulla. Dici che devo pensare come loro?”

“No,” Freja rispose, il tono fermo ma calmo, “non pensare come loro, ma usa ciò che sai contro di loro. Tu hai perso tutto per colpa dei Turchi. Vuoi restare viva per vendicarti, o vuoi far parte della storia? Vuoi che i libri raccontino che sei stata quella che ha eliminato la loro influenza qui? Chi porterà equilibrio se non noi, che sappiamo cos’è la sofferenza? Tu sei armena, sei curda di adozione. Non hai solo sofferto; hai imparato a reagire.”

Freja fece un passo avanti “L'Europa ci guadagnerà, certo, ma non solo. Non siamo ciniche fino a quel punto. Questo posto avrà infrastrutture, scuole, acqua, elettricità. Le donne avranno voce. Khaled, Hezbollah, Hamas… sono nemici della pace, e la loro distruzione significa il primo passo verso un futuro condiviso.” Ci fu un lungo silenzio. Anahit sospirò, allentando le braccia. “E quando sarà tutto sistemato?” “Quando sarà tutto sistemato, mia cara, ci occuperemo anche dell’Armenia. Te lo prometto. Ma prima dobbiamo iniziare dalla torre più alta.” Freja indicò verso il cielo con un dito, in segno che la conversazione era finita. Anahit la guardò per un lungo momento e alla fine disse “mi fido di te Freja, va bene così”.

Tornando ironica Anahit disse “e comunque ho deciso di cosa farne con questo pezzo di sterco leccapiedi, ho un sacco di amiche qui che vorranno giocare con lui, del resto non può mica tornare facilmente dalla madre patria. Loro si occuperanno di nutrirlo e quando non sarà il loro gioco, sarà il mio porta scarpe. Fece qualche passo scalza sul pavimento per recuperare un paio di scarpe da ginnastica sformate dall'uso, ancora intrise dell’odore del sudore accumulato nei lunghi allenamenti al Rojava. Prese il piede destro e lo appoggiò sui testicoli dell’uomo con una leggera pressione, bilanciando una scarpa sul dorso delle sue mani legate. "Non fare il minimo movimento," avvisò. Recuperò un paio di tacchi che aveva rubato tempo fa in Giordania, neri e lucidi, un contrasto ridicolo con il decadimento della stanza. Li posò con nonchalance sulla sua pancia, spostandosi di lato per osservarlo dall’alto. “Stai imparando il concetto di utilità, vedo.” Infine, riprese i due stivali e con un ultimo sguardo sprezzante gli lanciò contro il fango incrostato che si era staccato dalle suole. "Tieniti pronto, le mie amiche potrebbero aver bisogno di una latrina in cui fare i bisogni quando verranno a trovarti" sibilò soddisfatta.

Alla fine Freja e Anahit uscirono dalla stanza, pronte per la prossima avventura che spettava loro.

Capitolo 8

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